Writings
Aftermath/Ciò che resta - Rayuela o Il Gioco del Mondo
Aftermath, “quello che resta”. Il termine inglese si riferisce a ciò che resta dopo il taglio del grano, e per metafora, ciò che resta dopo un grande evento.
Rayuela è il nome argentino del gioco della campana e può essere tradotto come "il gioco del mondo". E’ il titolo di un libro per me fondamentale di Julio Cortazar.
Il gioco del mondo per me rappresenta una metafora del processo di crescita, uno sguardo alle mie fantasie infantili, che ora sono diventate visioni inquietanti.
Noi stessi siamo fantasmi e mostri infantili di ogni tipo.
Gli autoritratti scorrono in un flusso ininterrotto con la natura e gli animali, la vita e la morte. Essendo nata e cresciuta nelle campagne di un piccolo paese del nord Italia, ricordo questi elementi come fonte di tutte le fantasie della mia infanzia.
Poiché ciò che definisce la natura della fotografia è il tempo, le fotografie sono diventate la mia memoria.
Il mio lavoro si basa su un concetto di fotografia come esperienza vitale. La macchina fotografica mi permette di esplorare le relazioni tra l'uomo e la natura, la cultura, il reale e lo psicologico.
Ma è anche un gioco quello che faccio, anche se è un gioco molto serio: la fotografia è la più selvaggia, la più libera, la più irresponsabile di tutte le cose. Tendo a creare spaesamento, sono sospettosa della realtà, ossessionata dalla vertigine che si crea quando si avverte che l’ordine abituale delle cose è minato.
Una leggera lacerazione nella trama del nostro mondo visibile. Un mondo invecchiato, fatto di crepe e fessure, polvere.
Ci sono parti sottili come lastre di vetro, troppo inquietanti per poterci camminare sopra. E infine, un'ambiguità degli oggetti: la vita e la morte, il sogno e la realtà, il volto e la maschera si confondono.
Ciò che si muove appare rigido, ciò che sembra ancora posseduto da una vita inquietante.
Mi interessano quelle zone dove il tempo prende il sopravvento sulla vita, luoghi che sembrano invitare gli uccelli a nidificare.
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Aftermath, "what remains." The English term refers to what remains after the wheat has been cut, and by metaphor, what remains after a major event.
Rayuela is the Argentine name for the bell game and can be translated as "the game of the world." It is the title of a seminal book for me by Julio Cortazar.
The game of the world for me represents a metaphor for the process of growing up, a glimpse into my childhood fantasies, which have now become disturbing visions.
We ourselves are ghosts and childish monsters of all kinds.
The self-portraits flow in an unbroken stream with nature and animals, life and death. Having been born and raised in the countryside of a small town in northern Italy, I remember these elements as the source of all the fantasies of my childhood.
Since what defines the nature of photography is time, photographs have become my memory.
My work is based on a concept of photography as a vital experience. The camera allows me to explore the relationships between man and nature, culture, the real and the psychological.
But it is also a game what I do, even if it is a very serious game: photography is the wildest, the freest, the most irresponsible of all things. I tend to create disorientation, I am suspicious of reality, obsessed with the vertigo that is created when one senses that the usual order of things is undermined.
A slight tear in the fabric of our visible world. An aged world, made of cracks and fissures, dust.
There are parts as thin as sheets of glass, too disturbing to walk on. And finally, an ambiguity of objects: life and death, dream and reality, face and mask get confused.
That which moves appears rigid, that which still seems possessed by a disturbing life.
I am interested in those areas where time takes over from life, places that seem to invite birds to nest.
Isola
"Abbiamo vissuto la nostra vita partendo dal presupposto che ciò che è stato buono per noi sarebbe stato buono per il mondo. Ci siamo sbagliati. Dobbiamo cambiare la nostra vita in modo che sia possibile vivere secondo il presupposto contrario, ciò che è buono per il mondo sarà buono per noi. E questo richiede che facciamo lo sforzo di conoscere il mondo e di imparare ciò che è buono per esso".
Da anni porto avanti una ricerca sull’interdipendenza tra ambiente ed essere umano, un equilibrio mai scontato da trovare e sempre da rinegoziare, raccontato attraverso la rielaborazione del mio presente: un microcosmo personale che si ricollega ad un macrocosmo. Sono nata in una famiglia di origini contadine, la vita stessa della mia famiglia è dipesa dalla natura, quella natura da cui per anni sono stata lontana con sentimenti contrastanti. Una volta diventata madre io stessa, ho iniziato a ricomporre quel filo rosso che unisce la storia della mia famiglia di origine con la mia storia, nella ricerca, non più scontata, di un rapporto più viscerale con l’habitat che ci ospita. Attraversando varie regioni, siamo approdati in Sabina, ai confini con la riserva del Tevere-Farfa e lì abbiamo iniziato a costruire una quotidianità nuova. Isola parla attraverso autoritratto, staged photography e immagini di documentazione quotidiana, di me, della mia nuova famiglia e di una non sempre facile riconnessione con la terra e con le mie radici.
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"We lived our lives under the assumption that what was good for us would be good for the world. We have been wrong. We need to change our lives so that it is possible to live under the opposite assumption, what is good for the world will be good for us. And that requires that we make the effort to know the world and learn what is good for it."
For years I have been pursuing a research on the interdependence between environment and human being, a balance never to be taken for granted to be found and always to be renegotiated, told through the reworking of my present: a personal microcosm that connects to a macrocosm. I was born into a family of peasant origins, the very life of my family depended on nature, that nature from which for years I was distant with mixed feelings. Once I became a mother myself, I began to recompose that red thread that unites the history of my family of origin with my own history, in the search, no longer taken for granted, for a more visceral relationship with the habitat that hosts us. Crossing various regions, we landed in Sabina, on the borders of the Tevere-Farfa reserve, and there we began to build a new everyday life. Isola speaks through self-portraits, staged photography and daily documentation images, about me, my new family and a not always easy reconnection with the land and my roots.
I giorni dispari / Odd days -
(postfazione al libro Come un Clown di Simona Giordano, 2019)
Mentre tento di racimolare le poche parole che voglio scrivere, mi trovo sull’Appennino emiliano, nella casa che fu dei miei nonni materni, Aldo e Mercede. E’ una casa rossa, immersa in un querceto. Attorno, solo boschi, tanto che ci si potrebbe dimenticare di abitare in un mondo in cui ci siano altri esseri umani.Ci sono sempre stata bene, qui, e nei momenti più dolorosi ci sono tornata a recuperare le forze.
É da qui che inizio a raccogliere le immagini che faranno parte del libro di Simona, in queste lunghe giornate di fine luglio, stranamente calde e silenziose. Raccogliere sì, perché, sebbene io abbia decine di fotografie di Simona, scattate negli anni della nostra lunga amicizia, per questo libro ho deciso di ripercorrere il mio archivio alla ricerca dei segni della mia malattia.
Come Simona, anche io ho sofferto di disturbi alimentari.
Ne sono guarita ormai diciotto anni fa, anche se non ho mai saputo veramente dare un inizio ed una fine precisa a quel periodo della mia vita. Diciotto anni, eppure, a ben guardare, mi sembra che qualcosa sia rimasto impresso nelle mie immagini, una sorta di traccia sottile ma indelebile.
Paul Auster, ne Il Paese delle Ultime Cose, scrive:
“ Queste sono le ultime cose, scriveva. A una a una scompaiono e non ritornano più. […] Non mi aspetto che tu capisca. Non hai mai visto niente di tutto questo, e anche se provassi, non potresti neppure immaginarlo. Queste sono le ultime cose. Una casa un giorno è lì e il giorno dopo è sparita. Una strada lungo la quale solo ieri camminavi, oggi non esiste più. Persino il tempo è in un flusso costante. Un giorno di sole seguito da un giorno di pioggia, un giorno di neve seguito da un giorno di nebbia, il caldo e poi il freddo, il vento e poi la calma, un periodo di freddo pungente e poi oggi, nel mezzo dell’inverno, un pomeriggio di luce fragrante, caldo al punto da fare sudare. […] Niente dura, vedi, nemmeno i pensieri dentro di te. E non devi sprecare tempo a cercarli. Quando una cosa sparisce, finisce”.
Sono le migliori parole che finora ho trovato per descrivere la malattia.
Questa malattia, se la si lascia fare, inizia a rosicchiarti pezzo a pezzo. Comincia a portarti via, una cosa dopo l’altra, tutto ciò a cui tieni: la voglia di uscire, di vedere le persone che ami, di andare fuori a cena, naturalmente, ma anche di viaggiare, di fare l’amore, o anche solo abbracciata, di scrollare le spalle con una risata, di mischiarsi col mondo.
Fino a che non rimane più niente.
A volte, se ci ripenso, è stato come finire dentro un gorgo d'acqua; per saltarne fuori ci voleva una forza doppia rispetto a quella che ti trascinava dentro, giù, sul fondo.
Tenuta sott’acqua.
Ripercorrere così il mio archivio è stata un’operazione in un certo senso terapeutica. Mi sono rituffata là, dove ho sempre avuto il terrore di tornare. A volte ho paura anche di ricordare.
Ho scelto alcune immagini di Simona, per lo più dei ritratti ( ho sempre amato molto il suo viso ) e ho iniziato ad accostarle ad altre immagini che ho scattato negli anni in cui ero ancora ammalata e all’improvviso ho scoperto nuovi percorsi, nuove letture delle mie immagini e della mia storia, nuove coincidenze.
E ancora una volta, da quando ho ripreso a mischiarmi col mondo, posso celebrare la meraviglia dell'imperfezione.
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(afterword to the book Come un Clown by Simona Giordano, 2019)
As I try to scrape together the few words I want to write, I find myself in the Emilian Apennines, in the house that belonged to my maternal grandparents, Aldo and Mercede. It is a red house, immersed in an oak forest. All around, only woods, so much so that one could forget to live in a world where there are other human beings. I've always felt good here, and in the most painful moments I've come back to recover my strength.
It is from here that I begin to collect the images that will be part of Simona's book, in these long days of late July, strangely warm and silent. Collecting, yes, because although I have dozens of photographs of Simona, taken during the years of our long friendship, for this book I decided to go through my archives in search of the signs of my illness.
Like Simona, I too have suffered from eating disorders.
I was cured eighteen years ago, even though I never really knew how to give a precise beginning and end to that period of my life. Eighteen years, and yet, on closer inspection, it seems to me that something has remained impressed in my images, a sort of subtle but indelible trace.
Paul Auster, in The Land of Last Things, writes:
"These are the last things," he wrote. One by one they disappear and never return. [...] I don't expect you to understand. You've never seen any of this, and even if you tried, you couldn't even imagine it. These are the last things. A house is there one day and gone the next. A road you were walking down only yesterday, today it no longer exists. Even time is in a constant flux. A sunny day followed by a rainy day, a snowy day followed by a foggy day, heat and then cold, wind and then calm, a period of bitter cold and then today, in the middle of winter, an afternoon of fragrant light, hot enough to make you sweat. [...] Nothing lasts, you see, not even the thoughts inside you. And you don't have to waste time looking for them. When something disappears, it ends."
These are the best words I've found so far to describe the disease.
This disease, if you let it, begins to gnaw at you piece by piece. It starts to take away, one thing after another, everything you care about: the desire to go out, to see the people you love, to go out to dinner, of course, but also to travel, to make love, or even just hug, to shrug with a laugh, to mix with the world.
Until there is nothing left.
Sometimes, when I think about it, it was like ending up in a whirlpool of water; to jump out of it you needed twice the force of the one dragging you inside, down to the bottom.
Held underwater.
Going back through my archives in this way was therapeutic in a certain sense. I plunged back in there, where I've always been terrified of returning. Sometimes I'm even afraid to remember.
I chose some of Simona's images, mostly portraits (I've always loved her face) and I started to put them together with other images that I took during the years when I was still ill and suddenly I discovered new paths, new readings of my images and my history, new coincidences.
And once again, since I have begun to mix with the world again, I celebrate the wonder of imperfection.
INSIDE-OUTSIDE. Due artiste allo specchio: Milli Gandini e Simona Ghizzoni + un film di Sergio Racanati
MLB Gallery Arte Fiera Bologna.
Testo di Manuela Gandini.
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Per Arte Fiera Bologna 2024, Maria Livia Brunelli della MLB Gallery di Ferrara, con la collaborazione di Manuela Gandini, propone un progetto curatoriale inedito di riscoperta e rilettura del lavoro dell’artista storica Milli Gandini in un audace confronto con le opere dell’artista attivista contemporanea Simona Ghizzoni. In entrambi i casi, la metamorfosi del corpo, del ruolo e delle identità femminili sono al centro della speculazione filosofica e politica delle due artiste in tempi e spazi diversi.
Due generazioni lontane, accomunate dal fil rouge dell’arte come dispositivo di trasformazione coscienziale, politica e sociale. Milli Gandini – che con Mariuccia Secol è tra le fondatrici nel 1974 del Gruppo Femminista Immagine di Varese - decise di non spolverare più, non lavare i vetri, non pulire i pavimenti. Quando la casa fu sufficientemente sporca, tracciò il simbolo femminista sulla polvere e scrisse lo slogan “salario al lavoro domestico” su finestre, mobili e scaffali impolverati. Chiese a una compagna del gruppo di posare per una serie di scatti fotografici, trasformando la casa (INSIDE) in un terreno di lotta femminista, in un manifesto, in un’opera. Poi prese le pentole nelle quali aveva cucinato fino ad allora e decise di chiuderle con il filo spinato, dopo averle dipinte con smalti multicolore.
Il Gruppo Immagine è stato il primo gruppo femminista ad essere invitato alla Biennale di Venezia del 1978 a cui è seguito il gruppo di Mirella Bentivoglio pochi mesi dopo.
La sua pratica politica e artistica si fondava sulla rivendicazione del salario al lavoro domestico (nota mia: ho visto che nel libro si parla di salario al lavoro domestico e salario contro il lavoro domestico; secondo me ha più senso mettere al, che è il nome del Gruppo Padova con cui Milli ha condiviso l’esperienza) e la richiesta di riconoscimento da parte dello Stato dell’enorme, incessante carico di lavoro femminile, invisibile e svalorizzato. La peculiarità della lotta intrapresa dal gruppo, composto da Silvia Cibaldi, Milli Gandini, Clemen Parrocchetti, Mariuccia Secol, Mariagrazia Sironi, consiste nel processo artistico e culturale che si è svolto per un decennio nelle maggiori sedi artistiche europee a livello sia teorico che espositivo.
Viene inventato un nuovo statuto esistenziale: “La mamma è uscita”, una sorta di manifesto politico di cui la MLB Gallery presenta un distillato di dieci fotografie in bianco e nero e tre collage di Milli Gandini raffiguranti “pentole e scolapiatti inusabili”, a sancire la perenne attualità di istanze rimaste senza risposta.
Un altro tassello per la ricostruzione di quell’era ben rappresentata nella mostra Il soggetto imprevisto. 1978 Arte e femminismo in Italia, curata da Marco Scotini e Raffaella Perna ai Frigoriferi Milanesi nel 2019, dove Milli Gandini compare tra le figure eminenti dell’epoca. (la citiamo oppure no?)
Di Simona Ghizzoni, che incarna la generazione della terza ondata del femminismo, vengono presentati quattro corpus di lavori che tracciano il percorso evolutivo dei suoi progetti fotografici, poetici e politici. In Between (2006) una donna evanescente a filo d’acqua, in un panorama alla Tarkovskij (OUTSIDE), inaugura un viaggio interiore verso la propria critica essenza. I ruderi, l’umidità, la campagna e i boschi ereditati dalla linea materna dell’artista sono sfondo e centro dell’opera. Silenzi siderali e feconde solitudini diventano entità palpabili del paesaggio.
“Il paesaggio infatti – afferma Ghizzoni – è il mio autoritratto”, è la sua estensione ai regni animale, vegetale e minerale; è il ripristino simbolico della relazione che, come umanità, abbiamo tranciato nei confronti del vivente-non-umano. L’identità individuale e la relazione perduta con la terra accendono la riflessione di Ghizzoni che, attraverso i suoi set, cancella i confini. La donna, dall’abito rosso, non è più Inside, come negli anni settanta, ma Outside e cerca l’anello di congiunzione con gli ecosistemi.
Se la letteratura eco-femminista denuncia la violenza sul corpo come appartenente al medesimo atteggiamento predatorio dell’uomo nei confronti della terra, la sua opera ne sintetizza visivamente il concetto in Selvatica (2023). Selvatica è un lavoro inedito, un’investigazione poetica della complessità naturale che documenta e incanta. Ad esempio, dopo il grande incendio nel Montiferru in Sardegna, l’artista ha fotografato in bianco e nero un paesaggio spettrale, cinereo, oscuro, mettendo poi in evidenza con una colorazione manuale ad acquerello la vita che rinasce, come i rari germogli che cercano di riaffacciarsi alla vita.
Quando, negli anni Settanta, il Gruppo Immagine dichiarava: “La mamma è uscita”, sorgeva la domanda: “Dove è andata?”. Oggi, in un salto quantico, pensando al lavoro di Ghizzoni, potremmo affermare: “La mamma è andata in Sicilia nel bosco di betulle, è andata nella Valle di Comacchio oppure è a Gaza -(dove l’artista ha effettivamente vissuto per anni). - E’ andata a specchiarsi negli animali, nell’acqua e nelle foglie, è andata a cercare se stessa tra macerie e germogli nella pluralità intelligente dell’esistenza”.
Il progetto curatoriale Inside-Outside si completa con la presentazione, in stand, di un corto dell’artista film maker Sergio Racanati che intervista Mariuccia Secol, attivista e artista, autrice con Milli Gandini del volume “La mamma è uscita” (DeriveApprodi), corto realizzato per l’occasione attingendo a un’importantissima testimonianza storica.
Photography and Feminism in Italy: The New Generation ( Abstract )
Federica Muzzarelli
in The Journal of Asia-Pacific Pop Culture, The Pennsylvania State University Press.
What remains to be investigated now relates to the question of whether there is a legacy of feminism in the work of Italian women photographers of the 1970s—analyzed in the previous chapter—that reverberates in the work of new generations of artists. Before doing this, however, it is important to return to a theoretical question regarding the role of central figures in the debate on Italian feminist art like Carla Lonzi,52 in order to try to understand
how her ideas have influenced the perception, in today’s artists, of Italian feminist art. Deferring an exhaustive historicization in Lonzi’s theoretical contributions to specific in-depth studies, we will limit ourselves here to summarising the importance of her example and choices when she abandoned her career as a critic of Italian art in 1969–70 to found the Rivolta Femminile (Female revolt) group, devoting herself to feminism and self-awareness “as practices to embark upon a different investigation.”53 It is, therefore, a question of identifying the effects of her act of rejection, discussed in several recent papers,54 on the decisions involved in defining the identity of Italian feminist art: the mindful and rigorous adoption of a peripheral position compared to the contemporary art system, and naturally concerning the hitherto-undisputed conceptions of art and the artist in Italy.55 It is well-known that Lonzi’s position represented a total differentiation and radical separatism from the contemporary, masculine system of Italian art, the refusal to adapt to preconceived models, languages, and alphabets in favor of isolation in that margin (so well described by bell hooks as the key element in every feminist movement but, at the same time, so clear in describing feminism as a movement that does not fight only for women’s emancipation but for the emancipation from all forms of oppression such as racism, classism, and others) that could only free the creativity of women in the form of revolutionary sabotage.56
A weighty legacy, then, of marginality claimed and considered the only real escape from the dogma of art, a heritage found in the forms of self-awareness, “only by being oneself is one revolutionary,”57 and free, ir- rational writing in diary form, “writing becomes the necessary instrument in its original role of stopping thought. . . . It is no longer a form of writing linked to exceptional needs and talent,”58 the two critical and practical in- struments for refounding an idea of art: women’s art. Thus, the most important and foundational inheritance sowed by Lonzi after her break with the Italian artistic system appears to be the recovery of a way of thinking, speaking, and acting freed from rationalising, ordering, logical, and coher- ent habits for an existential and aesthetic necessity that passes through and for the manifestations of the body,59 the only way to truly enter into an open dialogue, a sort of cosmic mimesis, with universal subjectivity.
It is precisely this spiritual and concrete legacy, this shared poetics, that we believe opens the possibility of reflecting on the current situation in art. The objective of this article is to investigate the recent generations of Italian women artists who have employed the medium of photography and their relationship with feminist art of the 1970s. Beginning, of course, with the historical, social, and political distances between the two periods and that have already been justified by adopting Claire Raymond’s transfeminist and diachronic reading, but that are also self-aware and developed in the experiences, and therefore statements, of the artists and photographers who will be the case studies of this essay: Simona Ghizzoni, Silvia Rosi, and Alba Zari. Just as their experiences and backgrounds are diverse and wide-ranging and oblige us to speak of Italian feminist photography in a fluid, open, and intersectional sense, so too is their relationship with Italian feminist art and photography one of open respect and recognition, as well as conscious evolution.
The analysis of case studies begins with the work and poetics of Simona Ghizzoni (1977), a native of Reggio Emilia who relocated to Rome. She employs portraits and self-portraits in a constant overlapping of iden- tities, which means that even the zoomorphic ones,60 or those in which the subject is an inanimate object, serve as autobiographical reflection—just as Diane Arbus’s visual atlas of “freaks” also represented herself, her own fears and awkwardness, to cite just one important example. Simona Ghiz- zoni focuses on two themes: the story of herself (which she has collected in Self-portraits) and the investigations into the role and identity (Women’s Rights Chronicles). Already in Odd Days—a series of images address- ing eating disorders that she began in 2006 and has added to over time, in a continuous work in progress dealing with a woman and her struggle (fig. 12)—the two levels are continually contaminated and mixed. In different chapters like “Rayuela,” “Aftermath,” (figs. 13 & 14) and the recent “Isola” (Island), the photographs seamlessly follow from the stories of other women with whom Ghizzoni shares a sense of kinship, even when they tell stories divorced from her own, geographically or socially. This affinity extends to the stories of women from Gazah, Rafah, and Erez, and the tragedies that war has brought to their lives (Dopo il buio [After the dark], 2010–13); the Sahawari women, living witnesses to the cruelty and indifference that has shrouded the demands of this Western Saharan people (Solo per farti sapere che sono viva [Just to let you know I’m alive], 2012) (figs. 15 & 16); and the horror still inflicted on women by female genital mutilation (Uncut, 2015–20) (fig. 17). Photography becomes a means of reappropriating one’s story, but in doing so, one can and must traverse the stories of other women. Ghizzoni has declared her respect for and connection to the Italian feminist inheritance of the 1970s (she especially admires Marcella Campagnano’s L’invenzione del femminile [The invention of the feminine] and the originality of the Cooperativa Beato Angelico’s project),62 yet she argues that feminism requires a wider interpretation, in which the rights of women are included in inclusive actions of opposition and resistance against all forms of oppression, such as those suffered by the LGBTQA+ community.63 For her, the urgency to create art and photography is to speak out and denounce injustices ranging from the salary gap to the lack of real welfare to protect motherhood, characteristic even of “progressive” societies, to the devastation that befalls women’s bodies in areas of the world far removed from even minimal female anticipation.
Da Il Reportage n.58
Intervista a Simona Ghizzoni
di Maria Camilla Brunetti
Simona, quale è stato il tuo primo incontro con la fotografia? Quali circostanze ti hanno portato a scegliere il linguaggio fotografico come tuo strumento privilegiato di narrazione?
L’incontro con la fotografia è avvenuto nella biblioteca di Reggio Emilia, città dove sono nata. È un luogo che ospita una sezione molto importante dedicata alla fotografia, in cui ho avuto modo di conoscere e studiare, tra gli altri, il lavoro di Robert Franck, di Koudelka, quello di Francesca Woodman… Fin dall’adolescenza mi sono sempre interessata ai diversi linguaggi artistici, ho studiato musica, sono sempre stata appassionata di pittura e arti visive, ma sono state proprio quelle letture che mi hanno portato ad avvicinarmi al linguaggio fotografico. Parlo di un periodo in cui ancora non esisteva internet, un momento storico che precede quello della rete. Ricordo che fotocopiavo le immagini che mi interessavano da questi libri e le archiviavo. Mio padre aveva all’epoca una vecchia macchina fotografica meccanica e ho iniziato a portarla sempre con me. Con il passare del tempo ho capito che l’interesse per questo linguaggio cresceva e ho deciso di studiare fotografia per poi laurearmi al Dams, con Claudio Marra, con una tesi in Storia della fotografia. Da lì la decisione di provare a fare il mio primo reportage. Era il 2006, e decisi di andare a Sarajevo, per i dieci anni dalla fine del conflitto. Tenni una sorta di diario di viaggio di quei luoghi e delle memorie che custodivano. Quello nei Balcani era stato il primo conflitto che avevo vissuto da vicino e aveva avuto un grande impatto su di me. Con questo lavoro vinsi il Premio Fnac. In giuria c’era anche Renata Ferri, che considero una sorta di mentore e che mi ha insegnato moltissimo negli anni in cui abbiamo lavorato insieme a “IO Donna”, rivista di cui lei è photoeditor. Quel premio mi spinse a credere che forse davvero avrei potuto fare della mia passione anche un lavoro. L’anno seguente entrai nell’agenzia Contrasto e da lì è iniziata la mia carriera professionale.
Nel corso degli anni hai documentato con un’attenzione sempre rivolta alla dimensione più umana dei soggetti che ritraevi, tematiche molto delicate e complesse legate alla condizione femminile. Mi piacerebbe iniziare questa riflessione sul tuo sguardo fotografico da “Odd days”, uno dei tuoi primissimi lavori a lungo termine, portato avanti tra il 2007 e il 2010, e dedicato alla quotidianità di ragazze che soffrivano di anoressia e disturbi alimentari. Il progetto è stato tra i vincitori dell’edizione 2008 del World Press Photo Award. Come è nato questo lavoro e come si è sviluppato nel tempo?
Questo per me è un lavoro importantissimo e in parte lo sto continuando. È un progetto così importante perché anche io in adolescenza ho sofferto di disturbi alimentari. L’urgenza di iniziare questo lavoro nacque partendo proprio dalla mia esperienza autobiografica e dalla considerazione di quanto distorta percepissi una certa narrazione mediatica legata a chi soffriva di disturbi alimentari. All’epoca, quando i media si occupavano di questo tipo disturbi, usavano sempre immagini di un certo tipo, con un’attenzione quasi ossessiva su determinati dettagli corporei femminili. Ricordo queste immagini onnipresenti di schiene magrissime, costole esposte… Sentivo in quelle immagini quasi una forma di esacerbazione, di sfruttamento di una certa condizione corporea. Nella mia percezione invece i disturbi alimentari hanno a che fare con l’intimità della persona, con una sofferenza psicologica prima ancora che fisica. Chi soffre di disturbi alimentari spesso finisce per vivere in una sorta di bolla, che impedisce di avere rapporti sociali. Era proprio questo senso di isolamento e di solitudine che a me interessava comprendere e raccontare. Ero molto più interessata ai visi e agli sguardi delle ragazze che ho ritratto, che non a dettagli connotanti del loro corpo. Volevo spostare l’attenzione dalla fisicità al malessere interiore. Ho avuto la fortuna di trovare un centro per la terapia a lungo termine di questo tipo di disturbi, Palazzo Francisci a Todi, gestito da una direttrice illuminata che mi concesse la possibilità di entrare e di incontrare le ragazze. Mi avvicinai con l’idea di fermarmi per una settimana e invece finì che ci lavorai per tre anni. Nel momento in cui sono arrivata in quel luogo ho capito che avrei avuto bisogno di molto tempo per raccontare quella realtà nel mondo in qui desideravo farlo. Il tempo, in tutti i lavori che faccio, per me è un fattore fondamentale. Nel mio lavoro cerco sempre un approfondimento, uno sguardo più che posso vicino a quello che voglio raccontare e affinché questa cosa accada, almeno per il mio modo di lavorare, c’è bisogno del giusto tempo. Con una di queste ragazze, che si chiama Simona e che ho incontrato in quel centro nel 2007, abbiamo deciso di continuare a vederci almeno una volta all’anno e in quell’occasione le scatto un ritratto. È una forma di diario visivo dell’evoluzione della sua storia nel tempo, che documento da quindici anni.
Nel 2012, vieni nuovamente premiata al WPP, nella categoria Contemporary Issues, con un’immagine tratta da un altro tuo lavoro al quale ti sei dedicata per anni, After dark. In questo progetto hai documentato le conseguenze dell’operazione militare israeliana “Piombo fuso” sulle donne palestinesi nella Striscia di Gaza e il loro doloroso tentativo di ritorno alla vita dopo un’esperienza traumatica di quel tipo. Una narrazione su ciò che rimane, quando le luci della stampa internazionale si spengono. Ce ne puoi parlare?
Questo lavoro in realtà nasce all’interno di un progetto più ampio. Un anno prima (scriviamo l’anno) di andare a Gaza, ero stata in Giordania, con un assegnato da parte di un’organizzazione non governativa, per documentare la vita delle profughe irachene. Quel lavoro mi diede la possibilità di iniziare a riflettere su quanto fosse presente in noi l’idea della guerra come di qualcosa di istantaneo, un evento catalizzante che si apre e si chiude in un determinato lasso di tempo. Quello che invece avevo imparato a conoscere ascoltando le storie e le testimonianze di quelle donne era proprio il portato delle conseguenze di un conflitto sulle singole esistenze. Il portato di ciò che succede dopo la fine di un conflitto. Spesso sono le donne, soprattutto in Medio Oriente e nel bacino del Mediterraneo, a dovere sostenere il peso di ricostruire una quotidianità dopo eventi traumatici. A loro è affidata la cura dei figli, la loro educazione, la cura di ogni aspetto della vita familiare. A me interessava molto raccontare non la prima linea ma tutto quello che c’era dietro, quello che non si vedeva, che non veniva mai raccontato. Quando c’erano operazioni militari, non è il caso di quest’ultima in cui è vietato l’accesso a tutti i giornalisti e fotografi internazionali, all’improvviso entravano nella Striscia di Gaza centinaia e centinaia di giornalisti di testate straniere che poi sparivano una volta che l’operazione militare era conclusa. Invece a me interessava rimanere. Nell’arco dei tre anni che sono andati dal … al … (scrivere esattamente gli anni) ho trascorso tra Cisgiordania, Gaza e Israele almeno dieci mesi, tornando a intervalli ricorrenti. Questo tempo lungo, ancora una volta, mi ha permesso di guardare e di raccontare i dettagli, le sfumature, quelle fessure della Storia che così raramente vengono raccontate e di riflettere sui traumi nella popolazione civile che persistono per tutta la vita. Quando sono entrata a Gaza per la prima volta (scriviamo quando è avvenuto esattamente) ero con la giornalista Emanuela Zuccalà, con la quale collaboro da molti anni. Provai subito una sorta di innamoramento per quel luogo. La Palestina e Israele sono luoghi molto forti da raccontare, molto “ricchi” da un punto di vista narrativo, non solo per il conflitto ma anche per le tre grandi religioni monoteiste che lì convergono. Mi sono profondamente appassionata al racconto di queste realtà e negli anni ho continuato a tornarci.
Ci puoi raccontare, da un punto di vista umano e professionale, cosa significa lavorare in contesti così fortemente connotati per storia, memoria e presente?
Non è semplice. Da un lato, quando ho iniziato a lavorare a Gaza, avevo molto chiara qual era la mia missione, ossia quella di provare a dare nuovamente una dimensione umana a quelle persone. La guerra è disumanizzante. Le fotografie che ci arrivano dai teatri di guerra spesso sono così violente che ci portano a distogliere lo sguardo. Lo stiamo vedendo anche adesso, con quello che sta succedendo a Gaza. Le fotografie e i video che ci arrivano sono quasi intollerabili da sostenere, a livello psicologico e emotivo. Io volevo provare a ri-umanizzare le persone che mi affidavano la loro storia. Persone che non sono numeri ma esseri umani, che portano avanti una vita come chiunque altro, con i nostri stessi desideri di base, che sperano come noi di vivere una vita serena, di vedere crescere i figli, di trovare un lavoro. Il discorso pubblico si nutre spesso di un linguaggio stereotipato, terroristi/non terroristi e via dicendo, non tenendo conto che nella stragrande maggioranza dei casi, l’umanità è composta da persone come noi, che hanno i nostri stessi desideri. A Gaza ho avuto la certezza di riuscire sempre a trovare qualcosa in comune con l’altro, anche se aveva vissuto sofferenze e traumi molto lontani dalla mia esperienza personale e se proveniva da un background diversissimo dal mio. Il lavoro fotografico che ho portato avanti lì è nato da lunghi momenti di incontro e ascolto. Mi sedevo con quelle donne e ascoltavo la loro storia, quello che avevano vissuto. Tante famiglie ho continuato ad andare a trovarle a distanza di tempo, è nato un legame profondo che ha creato tra noi un rapporto di fiducia. Questo è un aspetto importante per il mio modo di lavorare. Ho sempre cercato di non drammatizzare le immagini, provando invece a raccontare ciò che è meno visibile. Non sono una fotografa da prima linea, al contrario il mio lavoro nasce dalla relazione umana che riesco a instaurare con le persone che voglio raccontare. Un altro aspetto che per me è centrale quando lavoro è la bellezza estetica delle immagini. La mia fotografia si nutre della storia della pittura, che ho studiato per tanti anni. Considero la bellezza delle immagini come una forma di cura e di restituzione di dignità, nei confronti del soggetto che sto fotografando. Quando qualcuno sceglie di farsi fotografare si sta, in qualche modo, affidando a noi. È una grande responsabilità. Il mio modo di maneggiare questa responsabilità e cercare di restituire la bellezza del soggetto che sto fotografando, anche in presenza di situazioni di sofferenza, che sia quella degli altri o la mia.
Guardando ai tuoi lavori questo desiderio di porsi in ascolto dell’altro e di raccontare la vulnerabilità, la dignità e la complessità di ogni esperienza umana emerge con grande forza. Se dovessi scegliere un incontro, un luogo, una lettura, un’autrice o un autore che ha cambiato per sempre il tuo “sguardo sul mondo” e ha rappresentato una svolta nella tua pratica fotografica, quale sarebbe?
Sicuramente potrei dire il lavoro di Nan Goldin nel quale, sebbene sia molto lontano dal mio, ho sentito subito una corrispondenza. Mi sono riconosciuta nella sua volontà di raccontare una storia dall’interno. Ricordo che vidi una versione video di The ballad of sexual dependency in occasione degli incontri di fotografia di Arles. Il fatto stesso che ogni volta che ripropone questo lavoro Nan Goldin torni a plasmarlo con nuovi interventi, fino quasi a trasformarlo in una opera cinematografica, è un aspetto che sento molto vicino alla mia sensibilità. Mi interessa quel senso di mistero e di non-detto che pertiene a un certo tipo di narrazione. Così come mi interessa raccontare l’attimo prima che accada qualcosa o quello immediatamente successivo. Quel lavoro, proprio per questa idea di contaminarsi con i propri soggetti, ha risuonato profondamente in me nel rifiuto dell’autrice di limitarsi a essere una testimone neutrale degli eventi e nel provare invece a essere qualcuno che si mischia e si immischia con i soggetti della propria narrazione. Questa poetica ha avuto così impatto in me perché si sposa con il mio carattere. La definizione su che tipo di fotografo sei ha molto a che vedere con quella su che tipo di essere umano sei. Negli anni, attraverso l’utilizzo che facevo della fotografia, parallelamente avveniva in me una riflessione sulla mia persona, sui miei limiti come fotografa (che rispecchiano i miei limiti come persona) e su quelle zone di pratica fotografica nelle quali invece riesco a esprimere me stessa al meglio. Sono convinta che se non sai chi sei non sei in grado di raccontare nessuno altro.
Da molti anni ti occupi di autoritratto, sia come artista visiva che come docente in seminari, workshop e corsi universitari. Nelle società contemporanee, attraverso i social, siamo sempre più invasi da una produzione incontrollata di immagini che mostrano ogni dettaglio della vita privata di milioni di individui. Una pratica dell’autoritratto come quella che tu stai portando avanti, mi sembra invece si ponga in maniera diametralmente antitetica a questo flusso opprimente di immagini. Vedo in questo dialogo con la propria interiorità, un tentativo di creare una stanza tutta per sé, nella quale fuggire da una forma sempre più pervasiva di controllo su ciò che è diventato socialmente accettabile e preferibile mostrare di sé. È così?
Sì, sono d’accordo. Ho iniziato a lavorare sull’autoritratto fin da subito, a diciott’anni, appena presa la macchina fotografica in mano. Nel periodo in cui ho sofferto di disturbi alimentari non mi facevo più fotografare da nessuno. C’è quindi un lungo lasso di tempo del quale non conservo nessuna immagine. Per questo, quando ho deciso di iniziare a fare fotografia, mi è sembrato naturale rivolgere l’obiettivo verso me stessa. Volevo essere io a raccontare la mia storia e a prendere in mano il racconto della mia esistenza. Non volevo essere definita da come gli altri mi vedevano o da quello che gli altri si aspettavano da me. Quando ho iniziato a occuparmi di autoritratto internet era agli inizi, i social ovviamente non esistevano e le persone che si occupavano di autoritratto erano pochissime. Prima che i social ridefinissero la nostra percezione sulla narrazione autobiografica, c’era un grandissimo pudore della propria storia personale. All’improvviso invece, con un processo rapidissimo, siamo stati inondati dalla vita quotidiana di milioni di persone e questa rivoluzione sociale ha spostato anche i confini del pudore. Credo che quello che si decide di mettere sui social sia più volto a creare un’identità che potremmo chiamare “fittizia”. Ossia, tendiamo a condividere quello che pensiamo gli altri si aspettino o vorrebbero vedere di noi. Quindi è sempre un processo rivolto agli altri e mai una vera riflessione su se stessi. Ha più a che fare con la reputazione, come scrive Concita De Gregorio nel libro Chi sono io?, che con una vera ricerca interiore.
L’autoritratto al contrario ha a che fare con l’identità personale. Sono percorsi diametralmente opposti. Nell’autoritratto ci si fotografa non per etichettarsi ma per cercare di raccontare delle sfumature della propria esistenza. Credo che quando in un autoritratto si riesce a essere autentici, quel racconto diventi universale, perché non c’è nulla che proviamo che non possa essere condiviso da altri esseri umani. È la possibilità di raccontare la propria storia dall’interno che mi interessa di questa pratica e lo scarto che viene a crearsi tra il momento in cui si predispone la macchina e l’ambientazione per la foto e il momento in cui ci si pone davanti all’obiettivo. Non sai mai quello che succederà perché non puoi vederti. Questo non sapere crea una sorta di magia. E quando poi, solo alla fine, vedi il risultato dello scatto provi un senso di meraviglia, di scoperta. Il primo progetto strutturato che ho fatto usando l’autoritratto si intitola Aftermath, e indaga, con una serie di ritratti, le conseguenze del disturbo alimentare su di me utilizzando un linguaggio anche molto immaginifico, in cui ci sono molti dettagli di paesaggio, del mio profondo rapporto con la natura. Questi due filoni del mio lavoro, ossia l’autoritratto e il ritrarre l’altro, sono sempre stati vasi osmotici. Ho sempre pensato che più riuscivo a conoscere me stessa e più sarei stata in grado di avvicinarmi all’altro in modo rispettoso.
Vorrei porti un’ultima riflessione su un tema che si sta molto dibattendo recentemente. Ossia l’intelligenza artificiale e i rischi connessi ad immagini, video e testi generati artificialmente, soprattutto in contesti di violazione. Qual è la tua opinione a riguardo?
È una questione sulla quale sto riflettendo molto e sto cercando ancora di farmi un’idea complessiva a riguardo. Gli aspetti da considerare sono diversi. Sicuramente una cosa che mi preoccupa è l’uso che di questo tipo di contenuti può essere fatto in un senso propagandistico perché a breve le immagini generate dall’ Ai saranno indistinguibili dalle immagini scattate da un essere umano. La fotografia è sempre stata credibile proprio nel suo valore di testimonianza: una persona si trovava in quel determinato momento, in quel determinato luogo e documentava quello che stava realmente accadendo. Con l’intelligenza artificiale la questione della testimonianza non esiste più. Penso anche però che ci siano tanti ambiti di narrazione visiva, non strettamente documentaristica, in cui l’intelligenza artificiale possa essere utilizzata in modo interessante. Ho visto un bellissimo lavoro di una mia studentessa dello IED di Roma, Ada Romito, che ha utilizzato l’intelligenza artificiale per ricreare immagini che potessero raccontare una dimensione di violenza domestica, di cui lei stessa era stata vittima, in assenza delle immagini reali/documentali del periodo al quale si riferivano i fatti. Quindi percepisco che nelle potenzialità dell’Ai ci siano anche aspetti interessanti ma non riesco a considerare quelle immagini come fotografia. Sono immagini che assomigliano a delle fotografie ma, ontologicamente, non sono la stessa cosa. Trovo molto preoccupante quando avviene una sovrapposizione dei due termini. Non devono e non possono essere equiparate. Proprio quest’anno, il World Press Photo ha fatto un passo indietro sulla possibilità di ammettere immagini generate artificialmente dopo una lettera scritta da Daniel Etter e firmata da moltissimi altri fotografi, tra i quali io, per evitare di confondere i piani. Questo non per fare una crociata contro l’intelligenza artificiale in senso lato, ma per sottolineare la necessità di una regolamentazione e di una trasparenza nell’utilizzo di certe immagini che a mio avviso ancora manca del tutto.
Da Fotografare n.27
Storie salvate
di Francesca Orsi
Tra staged photography e fotografia documentaria Simona Ghizzoni incarna le vesti di “paladina della memoria”, offrendo il suo obiettivo a quelle storie e a quelle vite che rischierebbero di affondare nell’oblio, per motivi sociali, politici o anche personali.
Simona Ghizzoni pervade i suoi progetti di intimità visiva, di quella vicinanza tra fotografo e soggetto tale da far perdere il confine dello sguardo dell’uno con quello dell’altro. Spesso perché le storie raccontate attingono proprio dalla sua esperienza personale, ancora più spesso perché i suoi progetti si avvalgono di una modalità fotografica di racconto che per Simona è stata al tempo stesso la sua ancora e la sua firma: l’autoritratto. Con il tempo il gioco di specchi di Ghizzoni ha sconfinato oltre la sua storia privata, diventando così voce di tematiche che dialogano con la memoria collettiva, con le lotte per i diritti sociali e di genere, con la volontà di rendere trasmissibili e visibili le vite di tutti, senza perderne nessuna lungo la strada del tempo e della storia. Particolarmente attenta ai soprusi perpetrati contro le donne, dalle mutilazioni genitali alla violenza domestica, Simona Ghizzoni porta a galla, con le sue immagini, ciò che rischiava di essere cancellato e dimenticato dal mondo, quelle storie private che proprio perché rivelate rendono più forte la voce di tutti.
Come e perché hai iniziato a lavorare con l’autoritratto?
È stata la prima modalità di rappresentazione che ho utilizzato, un po' in maniera inconsapevole forse, verso i diciannove anni. Ho sofferto di disturbi dell’alimentazione e per molto tempo non sono esistite fotografie di me. Mi sono ammalata che avevo tredici anni e fino quasi a vent’anni io non mi facevo fotografare da nessuno, mai. Ero scomparsa dall’album di scuola e da quelli di famiglia. Quando poi sono stata un po' meglio ho preso la macchina fotografica di mio padre e ho cominciato a farmi delle foto. È stato abbastanza istintivo, non c’era nessuna intenzione progettuale né alcun pensiero sul linguaggio fotografico, ma semplicemente avevo la necessità di vedermi. In questo modo ho iniziato a concentrarmi sulla fotografia, ho iniziato a studiare e a lavorarci più seriamente, con metodo, facendo diventare l’autoritratto la mia ricerca. Con il tempo, però, ho iniziato a raccontare anche altro, non solo la mia storia personale. Ad esempio con il mio ultimo lavoro sull’Antropocene, Rêve Géologique, mi sto focalizzando molto sul rapporto tra uomo e natura e nello specifico racconto dell’epoca geologica che stiamo vivendo.
Ce ne parli in maniera più approfondita?
Rêve Géologique proviene da un aneddoto della vita di Ferdinand de Saussure. Durante una gita sulle Alpi, nel momento in cui arrivò in vetta, si guardò intorno ed ebbe improvvisamente una percezione geologica, come se riuscisse a vedere tutta la storia in un unico momento. Questa sua visione mi è piaciuta molto perché riprende un po' la dimensione del sogno con cui lavoro spesso. Ognuna delle immagini del progetto parte da un dato scientifico, per esempio la presenza di “animali sentinella” come le gru che hanno cambiato le loro traiettorie di migrazione a seconda dei cambiamenti climatici in corso. Il mio intento è quello di rendere visuale un dato scientifico, rendendolo divulgabile e concreto tramite l’immagine. In questo progetto si inframezzano poi degli autoritratti che simboleggiano l’incapacità dell’uomo di interpretare quello che sta succedendo.
In Isola il tuo modo di fotografare è cambiato. Mentre nei precedenti lavori le tue immagini risultano frammentate tra loro, esteticamente a sé stanti, in Isola usi il colore e soprattutto la narrazione per immagini risulta lineare …
Mentre prima tendenzialmente ho lavorato a serie brevi, con immagini separate tra loro che vanno a comporre il puzzle di un mondo onirico ed evocativo, con Isola invece ho voluto introdurre il concetto di diario, utilizzando ovviamente anche l’autoritratto.
Il progetto racconta dei giorni passati insieme a mio figlio, al mio compagno e al nostro gatto in quella che era la casa dei miei nonni, dove abbiamo deciso di rifugiarci dopo la dichiarazione del primo lockdown, il 12 marzo 2020. Il progetto si intitola Isola proprio perché mi sentivo, insieme a loro, come un naufrago su una zattera. In maniera specifica mi sono concentrata soprattutto sul rapporto con mio figlio, dalla cui quotidianità l’avevo dovuto sottrarre a soli due anni. La mia nuova modalità diaristica nasce quindi da un’urgenza contingente e quotidiana, un qualcosa che succede mentre lo fotografo.
Per quel che riguarda l’uso del colore, invece, il fatto di essere isolati in campagna ha fatto sì che io riscoprissi, nelle mie immagini, la luce naturale del sole, mentre prima tendevo ad usare tonalità cupe. Inoltre, nella narrazione, ho creato volontariamente un movimento tra il dentro casa e il fuori anche proprio attraverso la luce: il dentro contraddistinto da ombreggiature caravaggesche e il fuori una luce brillante, avvolgente e soprattutto naturale.
In Isola cambia un po' anche la dinamica di narrazione della natura in relazione all’uomo e nello specifico ai tuoi autoritratti…
Nei precedenti lavori la maggior parte degli autoritratti sono stati fatti in interno, e così la natura fotografata esternamente risultava scollegata. In Isola, invece, ho trovato una sorta di equilibrio tra quello che è staged photography e la documentazione di ciò che sta accadendo, tra il dentro e il fuori e anche tra i miei autoritratti e le ambientazioni esterne.
Hai lavorato spesso anche con una certa fotografia documentaria focalizzata sul sociale, soprattutto sul tema dei diritti delle donne e delle violenze nei loro confronti. Penso ad Uncut, sulle mutilazioni genitali femminili in Africa, o Odd days, sui disturbi alimentari. Come il lavoro autoriale dei tuoi autoritratti va a dialogare con questi tuoi progetti?
Ho iniziato dalla fotografia documentaria a carattere sociale, mentre la parte di autoritratto la tenevo per me, un po' nascosta, come se fosse qualcosa di molto privato. Invece ora mi sto accorgendo che i due filoni lentamente stanno confluendo.
Il primo lavoro che ho affrontato nel 2007 è stato Odd Days, in cui ho documentato un centro per la terapia a lungo termine dei disturbi alimentari a Todi, ma sempre secondo le mie modalità di racconto cioè il ritratto e l’ambientazione attorno, non reportage. In questo centro ho conosciuto Simona, una paziente del centro, con cui ho instaurato un rapporto di fiducia ed amicizia. Da questo legame è iniziato un progetto fotografico parallelo sulla sua storia che dura ormai da quattordici anni. Una volta all’anno le faccio un ritratto.
Come è iniziato il vostro dialogo?
Quando ho conosciuto Simona, chiedendole se voleva far parte del progetto, lei mi disse: “Si, vieni domani, però vorrei che portassi qualcosa di bello”. In quel preciso momento la modalità documentaristica è stata accantonata in favore di una resa maggiormente staged. Così le portai un mazzo di fiori con cui abbiamo creato l’immagine del suo braccio da cui sembrano sbocciare i gigli che le avevo regalato. Da allora quando la fotografo aggiungiamo sempre quel “qualcosa di bello”, come furono i fiori la prima volta. Il dialogo tra la documentazione e la staged photography nel mio processo creativo è sempre stato molto serrato.
Hai collaborato anche, come fotografa, al documentario di Emanuela Zuccalà, Uncut, sulle mutilazioni genitali femminili in Africa e poi in Francia. Come si è sviluppata la vostra collaborazione?
Nel caso di Uncut io mi sono occupata esclusivamente delle fotografie e con Emanuela abbiamo lavorato a quattro mani sulla sceneggiatura. Avevamo già collaborato per un precedente documentario, Just to let you know that I’m alive, sulle sparizioni femminili forzate nel Nord Africa, in Western Sahara.
Entrambi i documentari parlano dell’attualità, ma non in maniera reportagistica, bensì focalizzandosi sul concetto di memoria, raccontando, cioè, storie che sono successe dieci, venti anche trent’anni fa e le cui conseguenze sono visibili ora sotto forma di sofferenza umana. Spesso infatti lavoro con le tracce della storia, mettendole insieme e ri-raccontando la storia stessa, per non farla cadere nell’oblio, per non farla scomparire.
In Just to let you know that I’m alive, infatti, oltre alla tua documentazione compaiono anche molte immagini appartenenti all’album di famiglia di alcune delle donne vittime di sparizione forzata…
Questo è stato a tutti gli effetti un lavoro partecipato tra me e le donne di cui ho voluto raccontare la storia, forzatamente incarcerate per anni in prigioni segrete. Non essendoci una documentazione di questi momenti, uno dei modi con cui queste donne potevano raccontarsi era proprio attraverso l’archivio delle loro immagini. Chiedevo, quindi, di scegliere una fotografia che fosse significativa per la loro storia, di appoggiarla sul mio diario e di scrivere accanto la motivazione della loro scelta. Il testo diventava così una sorta di didascalia dell’immagine. Poi io fotografavo la composizione del testo e fotografia sulle pagine del mio diario. Dopo lo scatto l’immagine ovviamente veniva restituita e così ora il mio diario è pieno della loro storia scritta e dei vuoti generati dalla rimozione dell’immagine.
Il tuo diario è diventato, quindi, esso stesso, metafora della loro vita…
Le fotografie sono delle tracce dell'esistenza. Apparse sul mio diario effimero per ricordare un periodo della vita delle donne passato nelle carceri, un periodo di cui la memoria rimane solo nei racconti, scompaiono a loro volta nel diario finale, quasi a ricordarci che ciò che non si può vedere rischia di venire dimenticato.
Ci racconti la storia di qualcuna di loro?
Elghalia Djimi ha una storia legata ai suoi capelli ad esempio. Lei è stata imprigionata per tre anni e per tutto il tempo in cui fu reclusa non le è mai stato permesso di lavarsi, a nessuna di loro era permesso. Quando finalmente è stata liberata ed è tornata a casa, lavandosi, tutti i capelli le sono caduti.
Mi raccontava spesso quanto, prima della prigionia, fossero belli e che non le fossero mai più tornati uguali, però teneva sempre a precisare che comunque era fortunata perché il marito l’amava lo stesso e la trovava bella ugualmente.
In alcuni progetti come Gaza Diaries usi sia il colore che il bianco e nero. Che cosa rappresenta il colore per te e cosa il bianco e nero?
In realtà anche in Uncut uso il mix tra colore e bianco e nero. Lo sto usando dal 2012, soprattutto in progetti che non siano lavori editoriali, ma personali. Molto banalmente il bianco e nero mi riporta ad una dimensione di atemporalità, il colore, invece, è più radicato nel vissuto, nella realtà, nel quotidiano.
Gaza Diaries, di cui mi chiedevi, ha una forte componente diaristica, per tre anni, infatti, ho viaggiato in quei luoghi, ma ho scelto ugualmente di utilizzare anche il bianco e nero per la dimensione atemporale in cui si vive a Gaza. Ogni volta che tornavo era come vivere in una dimensione ciclica dove tutto si ripeteva quotidianamente all’infinito.
Lavori inoltre con progetti di divulgazione e di educazione giovanile, focalizzandoti nello specifico sulle tematiche che affronti spesso anche nei tuoi progetti come la violenza sulle donne. Un esempio è stata la mostra Segni che hai esposto a Palazzo Braschi insieme a Ilaria Magliocchetti Lombi
È da diverso tempo che mi occupo di educazione, non solo di educazione fotografica ma anche di educazione attraverso la fotografia. Il lavoro è nato con Alessandra Mauro e la Consulta Pontificia Femminile, come progetto didattico per le scuole. Ci siamo poste alcune domande per iniziare: “Si può parlare di violenza domestica nelle scuole? Come e in che termini se ne può parlare?”.
Il progetto nasce dalle interviste che io e Ilaria abbiamo fatto a quattro donne, vittime di violenza domestica, reinterpretando poi visivamente degli stralci di ciò che ci avevano raccontato, io attraverso l’autoritratto e Ilaria attraverso gli ambienti della casa. Il nostro è stato un tentativo di mostrare come la violenza si nidifica piano piano, infatti la mostra si intitola Segni, non per rimandare ai segni sul corpo, ma ai segnali.
E come l’esposizione ha incluso l’intento didattico?
È stato creato un vero e proprio kit di stampe, scelte tra quelle esposte, destinato alle scuole, per sensibilizzare i ragazzi sulla questione della violenza. Abbiamo già fatto alcuni progetti pilota in due scuole di Palermo, una scuola media e una superiore.
Inizialmente abbiamo fatto vedere ai ragazzi le immagini e loro hanno avuto modo di leggerle ed elaborarle con le insegnanti e una psicologa, dando la loro interpretazione scritta alla singola fotografia senza leggere prima il testo dell’intervista che noi abbiamo interpretato. In seguito noi abbiamo raccontato le vere storie delle quattro donne ed infine gli abbiamo chiesto di cercare online delle immagini che secondo loro rappresentavano la violenza in senso generale.
Continuerà il progetto?
Spero proprio di si
DISTICI
“La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell'altro paese.” Susan Sontag
“Non so dire quale potrebbe essere la giusta proporzione, ma ho sempre avuto una sorta d'intuizione, che per ogni ora passata in compagnia di un altro essere umano, si ha bisogno di "x" ore da soli. Che cosa rappresenti questa "x", davvero non lo so [...], ma è una proporzione che ha un valore sostanziale.” Glenn Gould